Commento

La fabbrica Cina rallentata da un virus

La situazione sanitaria sembra in miglioramento, ma l’impatto sull’economia globale potrebbe essere elevato

(Keystone)
14 febbraio 2020
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Le principali società e banche d’investimento – da Goldman Sachs in giù, per citarne una su tutte – stanno facendo a gara per diffondere report rassicuranti circa le conseguenze del coronavirus sull’economia cinese. Non appena l’epidemia sarà contenuta o ne sarà annunciata una cura – è il tenore delle analisi – le attività economiche e commerciali riprenderanno come e più di prima. Insomma, il fatto di aver messo in ferie forzate milioni di persone oltre il tradizionale periodo di vacanze di fine anno lunare, per gli analisti finanziari non dovrebbe arrecare gravi danni alla crescita economica, né cinese, né internazionale. Una visione ottimista che contrasta con quanto le autorità cinesi hanno messo in atto in queste settimane: un cordone sanitario attorno a un’intera provincia di 60 milioni di abitanti (quanto l’Italia, per intenderci) e la costruzione in tempi record di un grande ospedale nella città più colpita dalla malattia (Wuhan, capoluogo della provincia di Hubei).

All’inizio dell’epidemia, complice anche la decisione dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) che aveva escluso l’ipotesi di classificarla come pandemia globale, eventi come la quarantena e l’isolamento militare delle città della Cina centrale erano apparsi ai nostri occhi poco più che una manifestazione di iper-cautela da parte del governo cinese dopo l’esperienza disastrosa della Sars nel 2003; quasi l’espressione della volontà di stupire il mondo con la capacità organizzativa della sua classe dirigente. A distanza di alcune settimane la situazione appare più critica e preoccupante. I morti, lo ricordiamo, sono più di mille, quasi tutti in Cina, e i contagiati più di 40mila.

In molti rapporti si legge un rassicurante confronto tra la mortalità del coronavirus (2-2,5% dei contagiati) rispetto a quello della Sars (10% dei contagiati) o di Ebola (90%). Secondo l’economista Marcello Esposito (Università di Castellanza), quello che non viene considerato è che per determinare la pericolosità di un virus quello che conta è un doppio parametro: la ‘letalità’ moltiplicata per la ‘contagiosità’. “Un virus come l’influenza ‘normale’ – scrive Esposito –, nelle sue molteplici varianti, ha una contagiosità molto elevata, ma una letalità molto bassa. Da ottobre a oggi, per fare un esempio, negli Stati Uniti si stima che circa il 5% della popolazione si sia ‘influenzato’ (18 milioni), ma la letalità è stata dello 0,07%, quindi 25 volte inferiore a quella del coronavirus. Giusto per ribadire che il primo problema del Covid-19, secondo la classificazione data dall’Oms al virus, è di tipo sanitario. Le persone muoiono prematuramente ed è già questo un costo umano di per sé”.

Questo vuol dire anche che per calcolare l’impatto economico di un virus sulla spesa pubblica, sui consumi privati e la produttività di un sistema economico bisognerebbe anche calcolare la probabilità di dover ricorrere a cure ospedaliere e avere conseguenze sulla salute invalidanti o croniche. Insomma, un conto è avere 10 milioni di persone che si ammalano per qualche giorno e che si curano da sole a casa, un altro è averne 100mila costrette a ricorrere a ricoveri ospedalieri e in isolamento.

Fatte queste premesse, non bisogna dimenticare che l’economia cinese vale circa il 20% del Pil mondiale. Se dovesse verificarsi lo scenario peggiore, ovvero quello di non riuscire a contenere la diffusione del coronavirus in tempi ragionevoli, una frenata brusca del gigante asiatico è praticamente inevitabile, con conseguenze su tutta la filiera produttiva di interi settori economici fuori dalla Cina, che hanno nelle imprese cinesi i fornitori e i clienti principali.

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