L'analisi

I nostri morti e i loro

17 novembre 2015
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Ci fanno sapere i ‘grandi’ della terra: adesso sì, è ora di mettersi d’accordo; adesso si deve trovare un accordo internazionale per battere il terrorismo e pacificare la Siria; adesso sì, visto che la carneficina di Parigi (a pochi giorni dall’abbattimento dell’aereo delle vacanze sul Sinai) fa sentire tutti più esposti, europei, russi e americani mai guariti dalle ferite dell’11 settembre. Questo sarebbe dunque il messaggio del vertice del G20 di Antalya. Se non è un’illusione, e si spera davvero che non lo sia, è quantomeno surreale lo spettacolo di questo vertice mondiale, che ora promette di incerottare e sanare, con una sorta di santa alleanza planetaria, il corpo malato del Medio Oriente, il fanatismo jihadista, il violento scontro all’interno dell’islam, la guerra esportata al di qua del Mediterraneo. Sì, spettacolo surreale. E, diciamolo, anche indecoroso. Infatti, se sbullonare il Califfato dell’orrore è la premessa irrinunciabile per poi neutralizzare i suoi sgherri anche nelle loro basi operative in Europa, non potevano bastare gli oltre 250mila morti della mattanza siriana, i massacri in Iraq, i sei milioni di profughi, le deportazioni, gli stupri, le esecuzioni sommarie, le pulizie etnico-religiose? Non potevano bastare per cominciare a fare quello che invece apparentemente viene promesso oggi di fronte allo strazio delle vittime del Bataclan, dello Stade de France, delle brasserie del decimo e undicesimo Arrondissements? È inevitabile che ci si impaurisca , ci si angosci, ci si indigni maggiormente quando il barbarico assalto che mira al gruppo avviene sotto i nostri occhi, in presa diretta, con militaresco e atroce sincronismo, in una città che si vuole simbolo stesso dei nostri valori di convivenza, mentre si apprende delle agghiaccianti esecuzioni sommarie degli ostaggi inermi, quando per la prima volta sei kamikaze si fanno esplodere nel cuore dell’Europa, come finora era avvenuto soltanto a Beirut e Damasco, Kabul e Damasco. Inevitabile, per qualsiasi cittadino. E tuttavia, da parte di Stati che sono a loro volta implicati e colpevoli nella tragedia vicino-orientale, e complici di una guerra per procura anche sul teatro siriano, questo diverso ‘peso’ dei morti, questa indignazione in base alla loro nazionalità e alla loro religione, questa sensibilità a ‘geometria variabile’ non é affatto estranea al grumo di responsabilità che stanno all’origine delle vite spezzate di Parigi, e di altre stragi del passato recente sul vecchio continente. Bastava guardarla, la foto di gruppo del vertice mondiale di Antalya. A cominciare dal padrone di casa, il turco Erdogan, il ‘principe dell’ambiguità’, che per anni ha aperto le sue frontiere ai traffici economici e militari dello Stato islamico, negato le sue basi aeree all’Alleanza Atlantico, bombardato il PKK e osteggiato i curdi siriani unici a combattere davvero insieme ai siriani contro le orde di Al Baghdadi. O il principe di un’Arabia Saudita, il cui generoso finanziamento ha armato ogni sorta di radicalismo, Daesh compreso. Oppure la Cina, sorniona nell’attendere gli sviluppi del conflitto ma puntuale nel bloccare le iniziative del Consiglio di sicurezza contro gli eccidi di Damasco. O, ancora, Vladimir Putin, che propone il suo salvifico ruolo di pacificatore dopo aver usato le sue bombe per salvare il boia Assad e indebolire la rivolta pro-occidentale. E mettiamoci pure Obama, con l’illusoria e mal interpretata ricerca di nuovi equilibri fra vecchi alleati sunniti (Ryad) e nuovi interlocutori sciiti (Teheran). La verità é che lo Stato islamico non é imbattibile, ma che ha fatto comodo a molti. Anche questo va messo nel conto delle responsabilità per la notte parigina dell’orrore. Certo, non la principale responsabilità, che é e resterà quella dei carnefici. Ma nemmeno l’ultima.

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